una sera

Una di queste sere, mentre me ne tornavo a casa in bicicletta, al ritmo delle mie pedalate, ho iniziato a pensare le cose più banali, le solite cose di cui spesso parliamo anche insieme. E mentre le case e le strade mi scorrevano intorno, i pensieri lentamente hanno iniziato a combinarsi e gradualmente a infittirsi intrecciandosi, come in un impeto. La testa mi si gonfiava, tronfia di cose, persone e parole. Le parole hanno iniziato a sembrarmi pesanti, marmoree, valorose, tracotanti, sprezzanti e ingigantendosi dipanavano le riflessioni che mi laceravano e facevano vibrare la testa stessa, fino al momento in cui ho percepito come degli argini infrangersi e cedere. I pensieri, fattisi vigorosi, si sono messi a confluire in una fiumana strabordante, la quale, fuoriuscendo dal mio cervello, ha cominciato a invadere il resto del corpo, a travasarsi irosa nelle vene e nelle arterie, ad avvolgere i tendini e poi a cospargersi e a inumidire i muscoli fino ad infiltrarsi e distillarsi burrascosa, sopra la pelle, in un brivido. E in quel momento tutto quanto era straripato dai confini della mia testa si è riversato e stretto nei pugni. L’attimo dopo mi sono come reso conto che se avessi picchiato a terra i pugni, con quei macigni che ci avevo gettato dentro, la vita, la morte, l’uomo, la natura, il senso, la coscienza, la politica, il futuro, il socialismo, la dignità, lo sfruttamento, il dominio, il potere, l’amore, la filosofia, la giustizia, la libertà e le parole stesse, avrei squarciato il suolo e provocato un terremoto, rivoltato la terra scoprendone le interiora.
Poi, come rinvenendo, ho avuto la netta sensazione di sentirmi vivo, a testa alta, lo sguardo vibrante, in là. Mi sono detto che allora non mi sono ancora perso, che ancora non sono diventato invisibile e che ancora non ho perso le forze. Ho capito che desidero molto di più che vivere cercando semplicemente di non farmi del male, o continuando a barare per sentirmi più vero. Ho capito che la solitudine e l’oscurità che a volte cerco, non dipendono da un gusto un po’ ridicolo e decadente per il crepuscolo, né tantomeno dal timore della luce del sole, semmai dal disgusto per le nebbie che impietosamente ci allontanano l’uno dall’altro, che ci ottenebrano e ottundono la mente, che ci fanno apparire quiete il caos, che ci fanno sembrare sfumato ciò che è evidente e che ci lasciano credere che sia evidente ciò che in realtà non scorgiamo bene. Forse i Ministri si sono sbagliati perchè non viviamo in tempi bui ma in tempi nebbiosi, di foschia. Com’è nebulosa ogni ideologia che ha chiare dentro di sè l’oppressione e il profitto. E a causa di queste nebbie, nell’incertezza e nell’ignoranza di non sapere dove andare, siamo costretti al nostro posto, illudendoci che la desolazione in cui brancoliamo sia il più grande benessere che l’umanità abbia mai conseguito.
Una di queste sere, in cui sono tornato a casa con la bicicletta, una volta coricato, mi sono adormentato chiedendomi che cosa debba pensare, dire e fare un uomo per potersi chiamare tale, per non essere vinto, per essere libero e quale sia di conseguenza, oggi, il nostro destino, se siamo noi a scriverlo.
Domande che ovviamente rivolgo a voi.